Il dramma che sta accadendo a Gaza non è soltanto una tragedia umanitaria: è il risultato di strategie economiche e geopolitiche che mettono al centro il potere e il profitto, e non la vita delle persone.
Mentre si contano oltre 65.000 morti e più di 25.000 bambini uccisi, il mondo intero osserva, protesta, ma non riesce a fermare una carneficina che sembra avere obiettivi diversi dalla pace.
Israele giustifica il blocco totale e la distruzione di Gaza con motivazioni legate alla “sicurezza nazionale” e alla lotta contro Hamas. Ma dietro queste ragioni dichiarate emergono interessi economici più profondi:
Controllo territoriale: la distruzione sistematica di case, scuole, ospedali e infrastrutture riduce ogni possibilità di autonomia palestinese, rendendo la popolazione dipendente da interventi esterni.
Ristrutturazione economica: si profila un progetto di ricostruzione che non è pensato per i palestinesi, ma per grandi aziende e investitori, trasformando Gaza in uno spazio di speculazione e commercio.
Costi enormi: paradossalmente, questa politica costa a Israele decine di miliardi di shekel, con un’economia interna sotto pressione, ma coperta dal sostegno americano e dagli aiuti internazionali.
Gli Stati Uniti restano il principale alleato di Israele. Dietro la retorica dei “diritti” e della “democrazia” ci sono precise logiche economiche:
Industria militare: ogni bomba, missile o sistema di difesa acquistato da Israele è prodotto e venduto da grandi multinazionali americane.
Influenza regionale: controllare il Medio Oriente significa dominare le rotte energetiche e mantenere saldo il ruolo del dollaro.
Diplomazia strategica: la vicenda palestinese diventa moneta di scambio nei rapporti con Arabia Saudita, Egitto, Qatar e altri attori regionali.
L’Italia, come altri paesi europei, si muove su un terreno ambiguo.
Il governo Meloni ha criticato gli scioperi e le mobilitazioni italiane in solidarietà con Gaza, definendoli “strumentalizzazioni”. Ma dietro questa posizione ci sono motivazioni precise:
Rapporti commerciali e diplomatici con Israele e con i partner NATO.
Paura di instabilità interna: scioperi, università occupate, piazze piene mettono pressione alla politica.
Gestione dell’immagine internazionale: l’Italia non vuole essere percepita come un paese che rompe con gli Stati Uniti e l’UE sul dossier israelo-palestinese.
Mentre i governi giocano con equilibri economici e politici, la realtà per il popolo palestinese è devastante.
Distruzione totale: case, scuole, ospedali rasi al suolo.
Economia collassata: nessun lavoro, nessuna produzione, nessuna indipendenza.
25.000 bambini uccisi, ma anche decine di migliaia di sopravvissuti mutilati e traumatizzati.
Sfollamento forzato: famiglie senza casa, costrette a vivere in campi profughi o a spostarsi in altri territori dove rischiano di essere emarginate.
Se i governi esitano, i popoli si muovono.
In Italia scioperi generali e manifestazioni hanno denunciato l’intercettazione della flottiglia.
In Europa città come Parigi, Berlino, Atene e Bruxelles sono scese in piazza.
In molti paesi arabi si moltiplicano cortei e richieste di rompere i rapporti con Israele.
Università e reti sociali alimentano una rivoluzione culturale dal basso: giovani, sindacati, movimenti studenteschi che denunciano la complicità delle istituzioni.
La solidarietà dal basso cresce, mentre i governi restano paralizzati dai propri interessi.
Molti si chiedono: qual è la differenza tra quanto accade oggi a Gaza e quanto accadde con Hitler contro gli ebrei?
La storia non si ripete mai identica, ma la logica di fondo – togliere a un popolo la terra, la casa, la dignità – è la stessa.
Non si lavora per una pace che permetta ai palestinesi di vivere nella propria terra con un governo palestinese, autonomo e sovrano.
Si lavora invece a progetti di commercializzazione dei territori, dove le vite distrutte diventano terreno per affari.
Abbiamo parlato dei morti.
Ma il dolore più grande riguarda i sopravvissuti mutilati: uomini, donne e soprattutto bambini che resteranno per sempre segnati.
Chi ricostruirà le loro case distrutte?
Chi darà loro cure mediche, protesi, assistenza psicologica?
Chi ridarà loro una dignità sociale, evitando che vengano emarginati come “diversi”?
Chi li accompagnerà a crescere in un mondo che li ha già condannati alla sofferenza?
La verità è che, oggi, queste risposte non ci sono.
E questa è la ferita più grande di tutte: non solo migliaia di vite spezzate, ma migliaia di vite condannate a sopravvivere senza futuro.
Il rilascio immediato dei membri della flottiglia.
L’apertura di corridoi umanitari reali.
Un impegno internazionale che non guardi solo agli interessi economici, ma alla ricostruzione della dignità umana.
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